Mi sono avvicinata al Femminismo quando ho incontrato il Transfemminismo e quando già alcune analisi dei Gender studies avevano fatto confluire le lotte in un’ottica Queer.
Non mi hanno mai convinta i separatismi, le misandrie, i bigottismi che fraintendevano la sessualità femminile, e le conseguenti illogiche scimmiottature del potere maschile, così care a certa narrazione anni ’80 della donna Virago e sull’orlo di una crisi di nervi. Non ho mai pensato che essere femminile fosse un male. Che il femminile lo performasse una donna o un uomo. Non ho mai pensato che il rossetto, i tacchi alti e il cazzo mi dovessero necessariamente essere ostili. Non ho mai detto di me stessa che ero femminista finché non ho scoperto questo femminismo, quello che il movimento Non una di meno ha quasi totalmente abbracciato, per lo meno nelle analisi e nella maggior parte de* partecipanti. Quello del Piano femminista.
Credo nel movimento Non una di meno e nella sua forza costruttrice, credo nelle differenze che ci caratterizzano e nelle possibilità che queste differenze producono nel senso della messa in discussione continua delle proprie convinzioni.
Ho avvicinato l’ideologia queer proprio per smontare tutte le convinzioni che la società patriarcale ha contribuito a costruire dentro di me, per eliminare le barriere sulle quali mi ero adagiata, dopo averne abbattute delle altre. Questo ha prodotto un lungo cammino che mi sta attraversando dentro e modificando. Quello che accade mi piace, l’ho voluto, ma c’è un grosso “ma”.
Io credo nell’autocoscienza come pratica continua, nell’autoformazione come motore di cervelli che si uniscono e nell’autocritica come strumento necessario a evitare che ci si accusi l’un l’altr* affossandoci. Credo nel giudizio e nella condanna degli atteggiamenti, non delle persone. Credo nell’autodeterminazione e credo quindi che ognuno di noi, nel limite delle libertà capitalistiche, decida coscientemente di comportarsi in un modo o nell’altro e possa decidere di smettere o meno, quando vuole e quando è pront*.
Credo quindi nella messa in discussione continua degli atteggiamenti prevaricatori, nella costruzione continua della coscienza femminista, nella decostruzione delle gerarchie e delle leadership.
In tutto questo mi trovo oggi a combattere senza armi in un ambiente che è, invece, violento, prevaricatore, maternalista, saccente e privo di volontà autocritica. Accade che, se si incontrano persone che stanno maturando un percorso di messa in discussione continua del proprio Io e persone che non mettono mai in discussione il proprio Super Io, le prime o soccombono o reagiscono violentemente. E io non sono fatta per soccombere e sto cercando di non reagire violentemente. Sto cercando di imparare a non farlo. Mi risulta molto difficile e avrei bisogno di un ambiente il più possibile protetto per rafforzare queste modalità.
E questo era quanto avevo da dire sull’atteggiamento, a mio avviso lontano dalla pratica femminista, che io non ho più intenzione di tollerare.
Passo a ciò che vorrei dire sull’attivismo.
Un movimento, per come lo intendo io, è composto da persone che si incontrano, portano avanti analisi, e poi agiscono sulla base di quelle analisi. Se l’analisi è condivisa è automatico che ognuna delle persone facenti parte il movimento abbia automaticamente la possibilità di parlare, scrivere, agire in modo condiviso dall’assemblea tutta. Perché se si ragiona assieme una visione della lotta automaticamente si potranno sapere quali ideali portare avanti, quali lotte affiancare, che linguaggio usare. Se qualcosa non è condiviso si torna indietro e si ragiona nuovamente. Ascoltandosi. Ma la pratica non può escludere la teoria. E la teoria in questo caso si costruisce con l’analisi, l’autoformazione, l’autocoscienza.
Non una di meno ha acquisito, oltre all’analisi, un linguaggio che è, anche se ancora in misura sperimentale, inclusivo, quindi il più possibile divulgativo; transfemminista, quindi rivolto a tutte le minoranze da questo attraversate. Il che non vuol dire rinunciare a termini specifici, ma tendere alla diffusione e allo scambio dei saperi.
Anche qui non mi trovo con le scelte del gruppo locale. Nè ho trovato una volontà di messa in discussione. E non parlo, ovviamente, solo del linguaggio inclusivo sperimentale (asterischi o altri segni grafici), ma proprio della volontà inclusiva che parte dalla mancata aderenza alle analisi transfemministe.
Non voglio dire, perché sarebbe arrogante, che sia mancata conoscenza di tali analisi. Ma proprio in un’ottica di autodeterminazione e non di sovradeterminazione devo immaginare che le varie questioni che le analisi transfemministe e queer siano al di fuori degli interessi generali. E questo porta me a doverle mettere da parte, facendo violenza su me stessa.
Concludo con una osservazione proprio sugli interessi generali.
Il femminismo è, per me, una cosa che si fa. Non è una medaglia o una spilletta, non è una tessera. E’ pratica continua di decostruzione. Questa è una certezza che io ho acquisito e muove ogni mio respiro.
Ma il femminismo è una cosa che si fa innanzitutto dentro di sè. Non è una illuminazione sacra acquisita una volta per tutte e poi infusa al prossimo. Non è una cosa che si insegna. Non è un bollino da apporre sulle altre persone.
Per poter fare questa cosa è anche necessario il continuo confronto e la continua messa in discussione del patriarcato che ci portiamo dentro. E poi la pratica continua di condivisione, di azione collettiva e costruzione di modalità non patriarcali.
La rappresantività è patriarcale. Il movimento è assembleare. Sarà più lento, ma è più femminista.
Ci muoviamo in una città che non ha più avuto per anni modalità assembleari e condivise, la sfida era difficile e l’abbiamo persa. Avremmo dovuto guardare dentro i nostri errori e siamo cadut* nella ricerca del capro espiatorio più classico: l’ignavia altrui.
Non ci voglio riprovare con le stesse dinamiche. Sarebbe assurdo e suicida per quanto mi riguarda, perché non riesco a portare avanti il percorso dentro di me se sento di dovermi difendere da chi non ha ancora eliminato la necessità di giudizio moralista paternalista dalla sua pratica “femminista” (in questo caso sì, tra virgolette) e non posso confrontarmi con chi crede che l’accusa dell’atteggiamento e non della persona sia un modo per girare attorno alle cose e non parlare chiaro.
Ho subito attacchi e critiche non costruttive. Ho provato a sopravvivere ma tutto questo mi stava trasformando e non è questa la trasformazione che voglio mettere in atto. E’ un’altra, e sarà con chi ha desiderio di mettersi continuamente in discussione, come voglio fare io, con chi ha voglia di analizzare la realtà e non sovradeterminarla, imparare e non solo insegnare, includere ed essere transfemminista, oltre a vivere e sperimentare, se vuole, modalità queer.
Non so se ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità prima di prendere questa decisione, ma una delle promesse che ho fatto a me stessa è che lascerò le quote di potere che derivano dallo stereotipo femminile che ci insegna a tenere in piedi le relazioni pena il giudizio sul nostro valore. Non voglio tenere in piedi una relazione con chi non ha la mia stessa visione della pratica femminista e con chi non ha intenzione di accogliere gli inviti all’autocritica.
Ho ovviamente intenzione di rimanere nel percorso Non una di meno, cui sento di appartenere dalla sua nascita, ma prendete questa mia come motivazione per ogni volta che non ci sarò e come motivo di possibili scelte future.