Il Dottor Gender – o – F – o – M, che si crede DIO

Sono seriamente sconvolta.

Questo medico sorridente in foto pare abbia (qui l’articolo) da poco realizzato

un intervento destinato a fare storia, considerata la tenera età del paziente. Un bambino di appena 2 anni dichiarato alla nascita come appartenente al sesso femminile, è stato operato al Policlinico Universitario “P. Giaccone” di Palermo per un cambiamento di sesso. L’eccezionale intervento eseguito dal prof. Marcello Cimador, associato di Chirurgia pediatrica e responsabile dell’Urologia pediatrica, è stato reso possibile dopo che ulteriori accertamenti eseguiti presso la Neonatologia dello stesso Policlinico, avevano accertato un corredo cromosomico del tutto compatibile con l’appartenenza al sesso maschile. La famiglia ha avviato quindi la procedura per il cambio di sesso da femmina a maschio presso l’anagrafe del comune di nascita.

La mia domanda è solo una: PERCHÉ???
Che necessità c’era di intervenire così brutalmente su di un bambino così piccolo? Che fastidio vi dava?
Fino al 1880 circa non vi sareste nemmeno posti il problema dei cromosomi, nessuno sapeva cosa cazzo fossero! Quel bambino sarebbe stato una femmina, come lo era Kim Novak, la bellissima attrice famosa negli anni ’50, tipico esempio della Sindrome di Morris.

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Due anni è troppo poco per definire se quel bambino si sarebbe sviluppato come uomo o come donna, e se avrà in futuro una identità di genere più vicina al femminile o al maschile (da antibinarista credo siamo tutti fluidi, quindi non esiste nessuno totalmente maschile e totalmente femminile, ma questo è un altro discorso).

LA MUTILAZIONE NEI CONFRONTI DEI BAMBINI INTERSESSUATI DEVE FINIRE.

Cosa accadrebbe se il bambino si dovesse sviluppare in questo modo? Con forme prettamente femminili?

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Dovrebbe affrontare un altro doloroso intervento, come quello che ha rovinato i primi anni della sua infanzia, per tornare a ciò che davvero è.

«Sovente in passato in questi bambini venivano mantenuti i genitali femminili, a causa dell’alta complessità di eseguire una genitoplastica mascolinizzante – dichiara il prof. Marcello Cimador – . Era poco conosciuta infatti la cosiddetta “androgenizzazione cerebrale” ovvero l’esposizione del cervello del feto e del piccolo bambino agli ormoni androgeni che orientano sessualmente l’individuo verso la mascolinità, col risultato di avere dei soggetti che si sentivano maschi in tutto tranne per il fatto di avere dei genitali di femmina. Casi clinici così complessi possono essere curati solo nell’ambito di una intensa collaborazione multidisciplinare, come nel caso in questione, in cui neonatologi, genetisti, ginecologi e chirurghi pediatrici afferenti al Dipartimento Materno-Infantile del Policlinico di Palermo hanno dato il loro contributo al successo delle procedure».

Non ci viene detto, ma se il bambino dovesse essere insensibile agli androgeni, come probabilmente è, visto che ha i cromosomi XY ma si è sviluppato come femminuccia, non servirebbe nemmeno imbottirlo di ormoni dalla mattina alla sera. O sarebbe pericolosissimo!

È questa la famiglia naturale? Questo è accettabile? Normale? Normalizzato?

Ma andatevene affanculo che vi avrebbero dovuto tagliare le tube e lo scroto da piccoli.

Merde.

Ghostbusters 2016

Non mi interessa molto la critica cinematografica, ma questo film rientra nel dibattito sulle questioni di genere, in qualche modo, quindi dico la mia.

Ghostbusters 2016 è una commediola senza arte né parte, esattamente come l’originale del 1984 (che ho rivisto attentamente). Comicità da Saturday Night Live, da cui provengono sia gli attori del film originale sia le attrici del reboot, con alcune differenze sostanziali, che vado ad elencare.

LA SCENEGGIATURA

Nel film del 1984 la sceneggiatura è un po’ più curata, con qualche battuta riuscita, soprattutto volgare (è tutto un troia di qua e di là, tiralo fuori, prendilo in mano, entrami dentro – ce ne sono già un paio lì dentro, eccetera), ma anche frasi che sono entrate nel mito. Voglio dire: “sei tu un dio?” eccetera, alcune sequenze come quella in cui Ray  pensa involontariamente al pupazzo della pubblicità, copiata infatti nel reboot in un totale fallimento che vorrebbe essere probabilmente un omaggio (Patty che ribadisce “fantasmino”), sono entrate nella storia per reale merito. Non si tratta di grande comicità, non sono i Monty Python, però sono carine.

Nel film del 2016 la gente si parla addosso di continuo. Ho sentito recensioni che parlano di stereotipo afroamericano della ragazza nera con gli orecchini grossi che urla, ma santo cielo qui urlano in molti. Continuamente. E di battute ce ne sono davvero poche e malriuscite. Siamo in un ambito molto meno volgare del primo, a parte la scena del direttore del college che fa vari diti medi, ma quel tipo di comicità, probabilmente, depurata della volgarità perde molto. I dialoghi sono poveri e banali.

LA REGIA

La regia del film 2016 è moderna, i tagli veloci. Fanno venire il voltastomaco.
Nel primo (1984) l’azione era garantita da lunghi piani sequenza, che di solito non danno il senso della velocità, però creano pathos, soprattutto quando una persona sta camminando e si deve intravedere l’arrivo di un fantasma. Quindi l’azione c’è, crea aspettativa.
Nel film del 2016 le inquadrature durano a stento 12 secondi, staccando anche senza un reale motivo narrativo. Non entriamo mai nella personalità di qualcuno, non lo sentiamo, perché il nostro sguardo (l’inquadratura) dura troppo poco. L’unica motivazione che trovo è il  mantenimento dell’attenzione, non puoi battere troppo spesso le palpebre o rischi di perderti un dettaglio (inquadratura di un oggetto o parte del corpo da molto vicino). Anche se poi, perdertelo, non cambierà nulla.

I PERSONAGGI

Melissa Mc Carthy non mi piace, non mi è mai piaciuta nemmeno quando faceva “Una mamma per amica”, quindi non posso dire mi faccia ridere. È un tipo di comicità, la sua, estremamente bassa per i miei canoni.
Il personaggio di Abby non è  niente di che. Bello il dialogo sull’essere bullati che fa con il pazzo sfigato, ma per il resto rimane tutto un po’ vago.

Erin è forse il personaggio di cui sappiamo di più, anche se tutto si esaurisce all’inizio, nel suo tornare alla vecchia passione, e nel parlare di quanta dignità avesse perso per ottenere una cattedra. Nel resto del film è un’arrapata che sbava dietro al segretario scemo, e alla quale sbavano sopra gli ectoplasmi. Il gesto finale, in quanto ribaltamento del personaggio fino ad allora piuttosto passivo, farebbe felice Aristotele, ma è l’unico momento un po’ emozionante del film. Non basta.

Kevin è il personaggio più sconclusionato mai visto. Di una stupidità troppo esagerata per risultare vera, e quindi per far ridere. In alcuni momenti sembra “4” di “mi sdoppio in quattro”, il quale però aveva un motivo per essere scemo. E quindi faceva ridere.
No davvero niente di quello che dice ha un valore comico. Dice semplicemente assurdità e nulla di ciò che appartiene al personaggio (faceva l’attore? Diteci qualcosa che faccia ridere, qualunque cosa) viene utilizzato per creare un suo senso.

Patty è la traduzione gender twisted del personaggio afro americano nel primo Ghostbusters. Quindi la tizia nera infilata lì perché sì. Nessuna personalità particolare tranne la voglia di farsi notare ed essere parte di un gruppo (un club, dirà lei). Le uniche battute simpatiche sono quelle del concerto e quelle del carro funebre, ma non siamo chissà su quali livelli.

Jillian è la mia preferita dall’inizio alla fine. Non ha alcun senso come personaggio, a parte essere la pazza che costruisce le cose, lo ammetto. E non conoscevo l’attrice. Però ho adorato come hanno saputo creare il personaggio gender twisted di Egon (il mio preferito nell’originale) rendendolo l’esatto opposto.
Io adoravo la serietà esagerata di Egon, (ecco, così capite il mio senso dell’umorismo atipico), rido ogni volta che dice qualcosa con quel tono serio e per nulla contestuale. Jillian è non contestuale e strana, in modo esattamente opposto. Urla a sproposito, balla distruggendo cose, è violenta.

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I FANTASMI

Inutile dire che siamo 30 anni dopo il film originale e la computer grafica ha fatto passi da gigante, ma devo dire che anche dal punto di vista stilistico i fantasmi del 2016 sono molto carini, a volte Burtoniani. Scocciano subito una come me che non ama i film catastrofici, ma sono belli.

Una menzione speciale va alle ARMI, che in questo reboot sono pazzesche. Non ho la più pallida idea di quanto siano credibili i paroloni che vengono pronunciati, ma sono armi bellissime. Gli zainetti sembrano semplicemente dei ventilatori luminosi, però è credibile siano più piccoli di quelli degli anni ’80, anche i computer lo sono. Certo scrivere dei dialoghi senza battute machiste mentre le usano deve esser stato difficile. Infatti sono riusciti male.

Mi è piaciuto il fatto che lo sfigato schiavo del male in questo reboot sia coscienziosamente tale, per riscatto sociale e non per caso, come accade nel film originale, e come già detto questo apre anche alla possibilità di parlare di un tema importante, quello dell’esclusione sociale, del bullismo.

L’ANALISI DI GENERE

Come molti hanno fatto notare, questo film supera ogni test generalmente utilizzato per analizzare la presenza femminile nei film.

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questo film è un dono?

NO, semplicemente i personaggi ricalcano in qualche modo dei personaggi nati come maschili, quindi le loro storie superano i test che generalmente si effettuano per capire se, i personaggi femminili di un film, hanno un senso narrativo o sono solo Puffette. Gli archi narrativi dei personaggi  maschili non supportano quelli di personaggi femminili, quindi questi personaggi non lo fanno. Hanno linee narrative a sé stanti.

QUESTO FILM È FEMMINISTA?

No, questo è un film comico di livello popolare. Intanto. Senza alcun intento morale a parte il tentativo sul bullismo. Non possiede alcuna storia che si possa definire femminista, non dice mai nulla che possa odorare di riscatto e parità ( a parte un commento su Youtube che esclude l’esistenza di acchiappafantasmi donne), nemmeno un sottotesto che parli di riscatto o parità, nulla.
Solo una storia di acchiappafantasmi che 30 anni fa erano uomini e oggi sono donne.
Ma è interessante il polverone che si è alzato attorno, molto prima che uscisse in Italia.

Innanzitutto gente che grida al capolavoro violato: no, dai, Ghostbusters non era un capolavoro. Parliamo di un film girato nel 1984, l’anno de La storia infinita, Non ci resta che piangere, Nausicaa della valle del vento, Indiana Jones e il tempio maledetto, Così parlò Bellavista… dai. Un compleanno da ricordare ha battute peggiori di Ghostbusters? Seriamente, rivedetevelo. A volte la nostalgia ci offusca la mente.

Poi quelli che “nooo, i reboot noooo!” Mamma mia, che depressione, alcuni si ritengono anche grandi conoscitori dell’arte cinematografica. Ma aprite la mente, diamine!  Osservare come diversi registi, in diversi decenni, affrontano una stessa storia è affascinante. L’espediente narrativo fornito dalla possibilità di diffondere video in tempo reale, ad esempio, e i commenti delle persone. L’argomento “terrorismo” utilizzato per giustificare le presenze spiritiche… non vi affascina vedere come cambiano i modi di pensare e vedere il mondo nei decenni? A me sì, e alcune arti ci permettono di scavare nel pensiero dei nostri precursori, o di noi stessi qualche decennio fa.

Il rifacimento è stato messo su con protagoniste donne per far parlare di sé? Certo! Peccato che poi il film sia precario per molti versi, perché di attenzione ne ha raccolta parecchia!
Conosco artisti che sono così: bellissime foto, promozioni scoppiettanti e poi spettacolo indegno di tale nome.

Ma non ogni cosa “al femminile” è poi femminista. Certo questo film evidenzia come i personaggi nati al maschile abbiano un senso differente, autonomo, storie indipendenti rispetto a quelli femminili, di solito. Ma smettiamola di pensare che “al femminile” sia per forza femminista.

Lo vedo anche nelle rassegne artistiche, nei cine forum, c’è questa convinzione di star facendo “qualcosa di femminista” perché lo chiami “rosa”, “girl” e inviti solo donne. Che tristezza da “bambine speciali”. Come sottolineare che non possiamo far parte della rassegna grossa, del festival mainstream, che siamo qualcosa a parte, il secondo sesso. Non facciamo parte dell’umanità.

Che tristezza, che boiata.

 

La Madre è un concetto antropologico

E SBAM!!! Migliaia di analfabete funzionali (perché sì, se non comprendete un concetto simbolico lo siete, se prendete alla lettera tutto senza comprendere l’astrazione lo siete) a sbraitare che loro non sono mica concetti antropologici!

Ma certo, che non lo siete. Voi siete persone che sono madri, la Madre è un concetto antropologico (ma anche pittorico, semantico, poetico…) ma questo non fa di voi un concetto antropologico. Voi siete persone. Persone appartenenti ad una categoria. Quella categoria è un concetto antropologico.

Che vuol dire?

Vuol dire che dalla nascita della parola questa si è riempita di significati, e questi significati erano differenti di secolo in secolo. Nello specifico sono molto cambiati intorno al XVII secolo. E voi non c’eravate nel XVII secolo, quindi tranquille, non si parla di voi. Quando si parla del concetto antropologico di Madre si parla di ciò che questo significa culturalmente, dell’idea che la data società ne ha e ognuno ne ha di sé, non si parla di te, Concetta, te Maddalena, te Sharon. Si parla di come, antropologicamente, il significato e il ruolo della Madre è cambiato.

Vi faccio un esempio che a me servì molto.

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questa è una casa.

Giusto? È una casa. Niente da eccepire.

Eppure CHI al mondo ha mai avuto una casa esattamente uguale a questa? Nel mondo reale, intendo.
Ecco, questo è il concetto simbolico. Questo disegno è una casa ma non è una casa, è un concetto simbolico di casa.

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Ha provato a spiegarcelo anche Magritte. Questa è una pipa? No, è la raffigurazione di una pipa.
Così sono i concetti simbolici, o antropologici, o poetici, letterari eccetera. Sono le rappresentazioni, in base al settore di studi / tipo di analisi/modo di raccontare, di una categoria di persone, o di cose.
E le persone non sono categorie, fanno parte di categorie.
Quella categoria sarà rappresentata, dove necessario, da una figura retorica in poesia, da un simbolo o una lettera su di un certificato, da un disegnino di una donna con la pancia, da dei cromosomi in campo biologico – genetico, dall’immagine di qualcuno che vi grida di non sudare, e poi vi infila la mano nella maglietta per vedere se la schiena è bagnata. Questo è una madre? Certamente sì. E lo è a prescindere da una serie di considerazioni che sono differenti da una persona all’altra (che vi abbia partoriti o meno, genere o sesso di appartenenza).

La persona che fa determinate cose per un figlio/una figlia è una madre. Siamo d’accordo?

Ora arriviamo alla madre/il padre simbolica/o e i suoi cambiamenti.

Nel diciassettesimo secolo (in occidente, parliamo della nostra cultura, ovviamente) è successa una cosa favolosa (ha iniziato ad accadere): la gente non moriva più a frotte. Grazie all’aumento dell’igiene, della stabilità economico – politica generale, delle scoperte scientifiche la gente iniziava a campare di più. Questo ha portato a un certo cambiamento nella concezione di se stessi e dei rapporti interpersonali. Perché HEY, FORSE TIZIO NON MORIRÁ TIPO… DOMANI, forse mi ci posso affezionare!
E così accadde soprattutto per i rapporti familiari (fino alla rivoluzione industriale la famiglia era il luogo in cui si lavorava, soprattutto. Per tutti tranne per gli aristocratici, che della famiglia se ne fregavano altamente, tranne nelle questioni di eredità e rappresentanza), perché le donne morivano un po’ meno di parto (quindi iniziavano a considerare la gravidanza una cosa ancora non proprio piacevole, ma almeno non tragica e veicolante alla morte), non era necessario sempre e continuamente risposarsi per avere una donna in casa o per avere un uomo che ci mantenesse… ci si iniziava a rilassare, riflettendo sui sentimenti, eccetera.
A ciò uniamo la Rivoluzione francese, che insegnò agli esseri umani che non bisognava per forza nascere aristocratici per campare bene, che si poteva anche passare di classe, e anche addirittura sposare qualcuno che ci piaceva (piano, con calma) e poi, col tempo… addirittura… INNAMORARSI.

Che, le persone non si innamoravano prima del Romanticismo? Ma sicuramente qualcuno si innamorava, infatti i tradimenti erano una cosa normale. Però possibilmente solo gli uomini e non necessariamente della moglie. Sto esagerando? No, sto semplificando.

L’amore come lo conosciamo noi (scambievole, consensuale, che migliora l’esistenza se è sano) è una questione recente, e lo è l’amore dei genitori verso i figli. Non che prima non esistesse affatto l’attaccamento. Ma era differente.
La famiglia e l’amore non erano necessariamente due cose interdipendenti. Che non vuol dire NON LO ERANO MAI, no, vuol dire che in genere non lo erano. Capisco che molti fanno fatica col concetto di pluralità vs omogeneità. Provateci. IN GENERALE.
In generale i neonati passavano molte ore da soli nella culla totalmente fasciati. Il significato di FIGLIO era continuità della stirpe, possibilità di avere braccia lavoratrici (per il padre, per i figli maschi); che palle un’altra femmina va beh qualcosa ce ne faremo, al massimo la mandiamo in convento (per il padre, figlie femmine); oppure che bello sono capace di procreare – sono una donna vera – non mi cacceranno di casa con accuse di stregoneria e similari, ho fatto un maschio, bene; cavoli ho fatto una figlia, va beh, visto che sono capace di farne e quindi sono una donna vera posso impegnarmi di più e fare un maschio.
Nessuno era mai tenero con i bambini? Probabile. Ma non era la norma. Inoltre venivano di solito allattati dalla balia, per motivi differenti tra ricchi e poveri.
Quindi ciao ciao il rapporto, il contatto, il legame indissolubile di cui tanto si millanta.
Ora.
MADRE è una parola molto antica, proviene dal Sanscrito “ma”(formare, preparare) che poi diventò “matr” (che produsse anche le versioni di altre lingue come inglese e tedesco) e in latino “mater” (colei che ordina, prepara). Il termine produsse anche le parole, e concetti strettamente legati, di matrix, matrice. Colei che crea.

E questo è stato per molti secoli, tanto da dover coniare, per la donna che il padre sposava alla morte della madre, il nomignolo di MATRIGNA. La madre cattiva narrata nelle favole, che non era colei che ti aveva sgravata, quindi era nammerda per forza.
Era così? Ne dubitiamo tutti, direi. Lo sappiamo che la matrigna è un simbolo, un personaggio delle favole, vero? Lo sappiamo che il motivo per cui viene screditata è la conservazione dell’unica importanza che le donne hanno avuto mai, quella di essere matrici, vero?

Eppure adottare, scambiarsi i bambini appena nati, rubarli, farli sviluppare del corpo della serva, abbandonarli in convento è stata la normalità per millenni. Ci sconvolgiamo del terribile fato di Edipo, ma non del fatto che sia stato abbandonato per una profezia. Eppure ricordiamo Giocasta e molto meno Peribea. E Pollicino?

E qui arriviamo al racconto, alla mitologia e alla letteratura.
Le madri della mitologia, come i padri, erano fortemente simbolici, e gli antichi greci lo sapevano. Raccontare di disgrazie dovute alla mancanza di ragione e ordine (di cui era simbolo la donna, priva di anima) serviva a insegnare alla gente la temperanza, l’ordine sociale. Anche Romeo e Giulietta servivano a insegnare l’ordine sociale. Non è importante se siano davvero esistiti. Sono simboli.

Ma ad un certo punto si inizia a raccontare delle vere passioni umane, delle paure, dei sentimenti. E da questo tipo di narrativa proveniamo noi.
Ma abbiamo dimenticato che l’essere umano non è sempre stato uguale, che la morte ha avuto tanti significati pur significando sempre “si smette di vivere”, e che ancora adesso ha dei significati diversi da persona a persona. Alcuni si dispereranno alcuni diranno “meno male”.
E così, è la bellezza della varietà umana.

E questa varietà non si può raccontare nello specifico. Sono tante storie, da cui possiamo trarre delle morali. Prima lo facevamo dal mito, dagli archetipi. Oggi lo facciamo dall’esempio di persone realmente esistite, o molto vicine alla realtà.
Il motivo per cui fino alla nascita della commedia romantica, del romanzo, del dramma borghese, ognuno raccontava più o meno la stessa storia con alcune variazioni, e poi sono nate tante storie, tutte completamente differenti, è che abbiamo iniziato a parlare di noi, della vita quotidiana. Che si è fatta più varia grazie al benessere e alla cultura, e che è diversa per ognuno.

Il realismo, il verismo, tutte le correnti che ci hanno raccontato la vita delle persone, sono nate dopo che quelle persone sono diventate importanti. Dopo l’umanesimo e poi l’illuminismo. Dopo, con calma. Cambiando modi di vivere e pensare. Cambiandoci.

Siamo rimasti esseri umani, col cuore, i polmoni. Ma siamo diventati più alti, più forti, più capaci di costruire il nostro mondo, più comunicativi, più veloci, più empatici, più affettuosi, più paranoici. Di più.

E QUESTO è un concetto antropologico. Non tu.

 

(questo scritto è un riassunto romanzato, che non si ritiene completo o esaustivo. Vuole solo essere uno spunto di riflessione. In seguito alcune fonti che potranno aiutarvi con l’approfondimento, se vorrete)

 

FONTI

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http://www.etimoitaliano.it/2014/01/madre.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Peribea

 

Crossdresser o travestito? Lost in translation.

(16 Marzo 2015, dal vecchio blog)

Quando ho preparato la mia tesi non ci ho fatto caso, ho dovuto farci caso successivamente.

Parlo del concetto di “Crossdressing” e “Travestitismo” spesso usati come sinonimi, o addirittura uno la traduzione dell’altro.

Chiariamo:

Il Crossdressing è il vestirsi con abiti generalmente identificati con l’altro sesso, tutto ciò al fine di “passare”, ovvero essere identificati, riconosciuti come appartenenti all’altro sesso. Questo può accadere nella vita o nell’ambito di una performance. Non dice nulla sull’orientamento né è sempre associato ad una disforia di genere.

Il Travestitismo è invece un feticismo, che consiste nel provare piacere nell’indossare gli abiti generalmente identificati con l’altro sesso, senza per questo ritenere di dover essere identificati con quest’ultimo. Generalmente, essendo un atto appartenente alla sfera del sesso, il travestitismo si attua nel privato.

Così spiega Meredith Garber, in soldoni, nel suo libro “Interessi truccati“*, proseguendo con la spiegazione di tutte le sfumature di genere manifesto (nel senso che noi VEDIAMO che il genere non è binarista ma la sfumatura è riconoscibile).

Ma il concetto di travestitismo è molto più complesso in realtà per quanto riguarda la lingua italiana e la storia dello spettacolo in Italia. . Diciamo che in generale è “l’abitudine a vestire i panni dell’altro sesso”, per parafrasare la spiegazione di Wikipedia, piuttosto chiara e con le modifiche storiche del termine, ma appunto nel tempo e con l’avvento della psicanalisi e la catalogazione dei feticismi il significato si è modificato.

Il travestitismo come abitudine a vestire i panni dell’altro sesso esiste da millenni, sia nel teatro antico (in cui le donne non recitavano, al massimo facevano le comparse mute) poi in avanti con l’utilizzo di attori di un dato sesso nei panni di personaggi dell’ altro sesso (spesso Peter pan, ma ad esempio il ruolo di “suocera scorbutica” veniva spesso vestito da un uomo, perché il baritono dava più consistenza al personaggio burbero) sia nella società, ma certo di personaggi come le vergini giurate dell’Albania la nostra società (che sta vivendo una fase di rigenderizzazione forzata) preferisce dimenticarsi. Ora sarebbe lungo da spiegare, ma fino circa al 1600 alla società non importava nulla di ciò che avevi in mezzo alle gambe, interessava solo il ruolo che intendevi ricoprire nella società e lo potevi fare “vestendo i panni” che quel ruolo richiedeva.

La necessità di interessarsi del fatto che i tuoi abiti coincidessero col tuo sesso biologico e con i tuoi cromosomi è relativamente recente.

Dicevo.

Il concetto di travestitismo fino alla catalogazione dei feticismi era vago e comprensivo di ogni tipo di “scambio di vestiti”, poi, precisamente Hirschfeld, alla fine del 1800, notò che lo “scambio di vestiti” poteva essere sia sintomo di disforia di genere ( e quindi portare alla volontà di appartenere all’altro sesso completamente) sia un semplice desiderio sessuale.

Allora come facciamo a non confonderci???

Come possiamo distinguere il Crossdresser (nel senso di persona che si traveste DA altro sesso) dal Travestito (nel senso di feticista)? Se non altro per non offendere la gente.

Nei testi specifici ho notato che, nelle traduzioni come nei testi scritti da italiani, gli studiosi tendono a mantenere il termine Crossdresser con tutte le sue declinazioni. Esiste infatti anche il Crossplay, incrocio tra Cosplay e Crossdressing, ovvero il Cosplayer veste i panni di un personaggio del sesso opposto al suo di appartenenza. Anche la Garber viene tradotta infatti con “travestito” per il termine inglese “transvestite” e viene lasciato “crossdresser” così com’è.

Come si dipana tutto ciò?

Ho scoperto da testi di psicologia che la differenza viene invece definita. Allora perché non la usano tutti?

La differenza sta nella precisazione clinica praticamente, poiché il nuovo concetto è “Feticismo di travestimento“. Quindi “Travestito” è la traduzione di “Crossdresser” e “Feticista di travestimento” è la persona che si eccita nel vestire i panni dell’altro sesso. “Transvestite”, in inglese? NO. Pare sia lo stesso anche per l’inglese, dove gli specialisti del settore hanno ritenuto necessario specificare che si tratta di “Transvestic fetishism“, come dice questa enciclopedia dei disordini mentali nel link da me riportato che io spero non essere un testo autorevole. Vista la foto.

Abbiamo quindi perso la generalizzazione del Sweet transvestite per qualcosa di più preciso?

Bah, lo spero, nel senso che spero la gente, soprattutto i comunicatori, possano documentarsi un pochino prima di scrivere imprecisioni sull’identità del prossimo.

Il concetto per quanto mi riguarda è che dovremmo completamente abbattere le etichette, ma la strada è lunga e le parole hanno un significato e una storia che le rende potenti, quindi aggiornarsi per bene prima di rischiare di chiamare qualcuno con un altro nome sarebbe auspicabile (mi è capitato un sedicente autore teatrale che, parlando di Princesa, la protagonista della canzone di De André, le desse del travestito, confondendo completamente il senso della canzone in questo caso. Ma la gente parla sempre di cose che non sa)

Oppure chiamatela semplicemente PERSONA.

Note:

– i link con asterisco sono affiliati

– sarei contenta mi correggeste nelle imprecisioni con fonti più accreditate delle mie. C’è sempre da imparare

La grazia fa male? Ricordiamoci di restare SANI – (Estratto di analisi di genere)

(9 Giugno 2014, dal vecchio blog)

(Questo è un estratto dalla mia tesi di laurea triennale, che il Professore ha ritenuto non inerente)

Quanto l’abito fa il monaco? Quanto è possibile comunicare di me, di quello che sono ora, rendendo possibile la comunicazione di ciò che sono dentro? Vesto sempre da donna, io, Paola Calcagno? Sempre da studentessa, sempre da cantante?

In questo momento in cui sto scrivendo, con la tuta e struccata, non credo affatto di essere vestita da femminuccia, non come probabilmente la società immagina essere una donna.

Io non sono sempre la stessa, nessuno di noi lo è, e ciò può essere comunicato tramite l’abbigliamento, oppure no. Se qualcosa ci insegna la semiotica applicata alla comunicazione visiva è che possiamo decidere di comunicare un significato rispetto ad un altro, ma non possiamo non comunicare, quindi che lo vogliamo o meno nel momento in cui il nostro corpo viene guardato, comunicherà qualcosa al ricevente. Potremmo indossare un sacco di yuta e staremmo comunque comunicando: stiamo comunicando il nostro non voler essere guardati.

L’apparenza diventa però importante quando vogliamo acquisire fiducia da parte del nostro superiore, o di una comunità in particolare, e quindi vestiremo gli abiti del luogo se siamo in visita diplomatica in un paese dalle usanze differenti da quelle del nostro paese di origine, ci preoccuperemo di vestire in modo adeguato per un matrimonio, per un colloquio di lavoro e indosseremo divise quando vogliamo mostrare l’appartenenza ad un gruppo.

Come spesso nella vita, la finzione filmica ci viene d’aiuto per comprendere alcuni meccanismi.

In Miss Detective (Miss Congeniality, 2000, diretto da Donald Petrie) l’agente Gracie Hurt (Tradotto: La Grazia, l’eleganza, fa male) è una donna che ha rinunciato completamente alla sua femminilità in nome della disciplina e della completa dedizione ai Federali, come spesso accade quando una donna raggiunge un livello professionale tradizionalmente designato agli uomini, acquisisce ed amplifica atteggiamenti e pensiero estremi, e quindi Hurt è rozza, cammina come un uomo, mangia enormi bistecche e non conosce la depilazione. Si troverà a doversi comportare e vestire da donna per un’indagine che salverà la vita a molte ragazze: farà la conoscenza con ceretta e bon ton, ma resterà l’agile e preparata agente capace di salvare Miss America, scoprendo che le pene più restrittive per chi viola la libertà vigilata sono un desiderio lodevole, ma anche la pace nel mondo non è male. Gracie viene scelta per la corporatura snella casualmente scoperta grazie ad un programma per identikit, come infiltrata nel famoso concorso di bellezza in cui dovrà scoprire chi attenta alla vita delle Miss inviando lettere anonime, si ritroverà ad affezionarsi a quelle donne che sentiva così diverse da lei, e a scoprire di non avere necessità di assomigliare alla versione peggiore del luogo comune di un uomo, di essere come dice Vecchioni: “[…] quella che va al briefing, perché lei è del ramo, e viene via dal Meeting stronza come un uomo, sola come un uomo” (Donna con la gonna, 1997 Roberto Vecchioni Studio Collection), ma che può essere Miss ed anche Detective.

Miss Detective è forte, scaltra e veloce, e lo è sia con la divisa che senza, lo è sempre, così come è sempre un’agente dell’F.B.I. Clarice Starling de Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991,  Jonathan Demme), pellicola certamente non dedicata alla parità di genere, anzi. Clarice viene scelta in quanto giovane donna, non per la sua avvenenza ma per la sua apparenza delicata, viene risparmiata perché Hannibal prova per lei affetto, la identifica con la sorella morta e ne diventa padre putativo e, nel sequel, compagno. Clarice è fragile pur essendo un’ottima agente e la scena della cattura di Buffalo Bill, con lei in divisa come gli uomini ma molto più piccola, ne sottolinea la inferiorità fisica, come l’umiliazione della scena della prigione, in cui si trova a camminare in mezzo a maniaci che la violano per quanto le sbarre permettono.

La divisa dell’F.B.I. ti dona quindi credibilità e forza, ma la divisa dell’F.B.I è cosa da uomini, per indossarla non basta essere forti, agili, scaltri, è necessario essere uomini.

Dalla parte opposta abbiamo Mrs Doubtfire – Mammo per sempre (Mrs Doubtfire, 1993, Chris Columbus), in cui Daniel Hillard,doppiatore dalle mille voci, perde il lavoro e si separa dalla moglie dopo troppe discussioni fondate sul suo essere infantile e non meritevole di fiducia. Dopo aver scoperto che lei sta cercando qualcuno che si occupi dei figli ed aver ricevuto il suo rifiuto, decide di travestirsi da gentile donna di mezz’età dalla voce gentile ed educata e candidarsi come tata. Le capacità di accudire dei minori, educarli, la bravura nell’occuparsi delle faccende di casa non sono pre-definite per genere e Daniel lo dimostra trasformandosi in una tata perfetta. Talmente perfetta da meritare di vedere i figli, una volta avvenuto lo smascheramento, ogni giorno dopo la scuola.

Il giorno in cui il mio corpo sarà solo mio. E solo un corpo.

(8 Marzo 2014, dal vecchio blog)

Simone de Beauvoir interpretata da Judith Butler:

“Qual è l’atto di negazione e disconoscimento con cui la mascolinità si pone come universalità disincarnata e la femminilità diventa la costruzione di una corporeità denegata?”

Il nostro corpo è l’involucro che ci protegge e ci mette in relazione con gli altri. Chimicamente, visivamente, “termicamente”, riceviamo e diamo sensazioni, ci proteggiamo, ci copriamo, ci scopriamo. Ci difendiamo.

L’absolute terror field poi, il corpo immaginario oltre il corpo, e l’uovo prossemico, lo scudo che mettiamo oltre il nostro corpo,  sono un ulteriore membrana non fisica, che proteggono quella fisica dagli attacchi altrui, che decidiamo di far oltrepassare o meno.

Il corpo è la nostra parte animale e il rapporto tra mente e corpo si può considerare, da quando siamo diventati animali autocoscienti, il più grande e bel mistero da risolvere in ogni settore della conoscenza.

Senza addentrarci però nelle teorie di propriocezione ed autocoscienza generica, vorrei parlare della differenza di concezione del corpo femminile da quello maschile.

Nasciamo femmine e la cosa di cui ci preoccupiamo, da sempre, è di essere belle e composte.

Il nostro corpo non è nostro, è da difendere dagli sguardi altrui ma contemporaneamente rendere piacevole allo sguardo altrui. Veniamo bombardate da immagini di corpi femminili in pose sensuali anche quando l’azione descritta è un semplice “spolverare”, questo escludendo tutto un discorso riguardante il fatto che non vediamo mai un uomo, spolverare.

La lunghezza della gonnellina da quando il mutandone è diventato mutandina, il pezzo di sopra del bikini che ad un certo punto te lo devi mettere perché ti stanno per crescere le tettine (me lo avete promesso a 10 anni e le sto ancora aspettando, ve lo dico), non puoi fare la pipì in mezzo alla strada come tuo cugino, perché ti vedono.

“Ma lui la fa!” “Eh ma lui è maschio!”

Devi chiudere bene la porta del bagno, imparare LA POSIZIONE perché in piedi tu non puoi farla.

Nascondi l’assorbente e dagli un nome stupido per chiederlo in classe. Filippo, dicevamo noi. Come se non fosse ridicolo chiedere “C’avete Filippo?” va beh. In fondo hai LE TUE COSE, mica un maledetto ciclo mestruale doloroso e fastidioso, no. LE TUE COSE.

La donna è misteriosa e ci hanno insegnato che è bella così, perché sai…il mistero…affascina.

La donna affascina. Avvicina ed allontana. Accoglie e rifiuta. Ma contemporaneamente.

Questa schizofrenia in equilibrio nell’equilibrio mentale che fatica a rimanere fermo in una società che ti guarda, ma non ti ascolta.

La bellezza.

Facciamo fatica a pensare che potremmo, chissà, anche non essere belle?

Sarebbe un problema?

La bellezza canonica esiste, è una questione accettata socialmente e varia nei luoghi e nei tempi. Se vogliamo parlare di occidente, pensiamo alla bellezza classica, ellenica, un corpo femminile rotondo e proporzionato, poi Botticelliana, se vogliamo riassumere (certo che vogliamo riassumere!) e poi gli ultimi decenni: la Yè yè magra e piccina che voleva restare infantile, la hippy che aveva altro a cui pensare, la Preppy super palestrata e la Grunge che a malapena si lavava.

Poi la donna del duemila e passa. In generale possiamo dire che un corpo proporzionato e salutare, a volte più muscoloso a volte più tondeggiante, ma nel limite del sottopeso o sovrappeso medico accettato, è condivisibilmente bello.

Senza entrare nel merito del disturbo alimentare, che non ha strettamente a che fare con il corpo socialmente accettato, restiamo nel concetto di bello-salutare.

Nel momento in cui siamo in salute e sufficientemente attive, è davvero necessario essere BELLE?

Io ho fatto un mio viaggio interiore e posso dire NO, ma da fuori le donne come si considerano e come vengono considerate?

Le donne vengono considerate per ciò che mostrano molto più degli uomini.

Se vogliamo denigrare una donna per aver agito male a lavoro, colpiamo offendendo il suo corpo e ciò che ne fa con esso. E’ brutta, oppure è troia.

Ma il mio corpo e ciò che ne faccio, è affare degli altri?

Chiaramente no.

Per entrare nell’ attualità potremmo accennare alla Signora Boldrini e l’accusa di esser stata una ragazza Coccodé, e domandarci: sarebbe stato davvero così grave se fosse vero? Se si fosse pagata l’università sculettando in televisione, la sua laurea avrebbe avuto meno valore di quella di una figlia di papà oliata dalla famiglia che non sa cosa vuol dire soffrire la fame ed il freddo perché non stai trovando lavoro?

Molte case di pronto moda ultimamente stanno finanziando campagne che promuovano un gusto per la bellezza che loro definiscono CURVY. Ora premettendo che curvy lo sono le pin-up anni ’50 con misure 90-60-90, e non le donne di cento chili, e aggiungendo che essere in salute dovrebbe contare più di tutto, ma:

E’ PROPRIO NECESSARIO ESSERE CONSIDERATE BELLE DALLA SOCIETA’?

Dobbiamo davvero cambiare il gusto comune per far sì che anche la donna grassa sia bella? (senza considerare che tutte quelle modelle ed opinion leader del “grasso è bello” hanno dei volti stupendi, e la bellezza è lì, se avessero un brutto volto sarebbero considerate brutte, c’è poco da dire) Non sarebbe molto meglio semplicemente cambiare il tutto virando verso un mondo in cui la donna possa anche non essere bella ma considerata per ciò che ha nella testa?

Possiamo essere invece che semplicemente belle, o comunque belle, che ne so…INTELLIGENTI? Colte? Preparate?

Solo quello e magari pure brutte e magari pure autoironiche nella nostra bruttezza?

Magari anche esibizioniste e trash con piume e lustrini, pur sapendo di non piacere esteticamente a tutti?

Io non conosco uomini denigrati professionalmente perché oggettivamente brutti.

Conosco però Lizzie Velasquez.

Lizzie Velasquez era una ragazzina di 16 anni con una malattia molto rara. Non assimila i grassi e questo, pensavano i medici, le avrebbe compromesso le possibilità di restare in vita e svilupparsi. Anche mentalmente. I genitori la portano comunque a casa e la amano come se fosse sana. Lei cresce, anche se rimane piccolina, cieca da un occhio e magrissima.

Ma tutto sommato possedendo una buona parlantina Lizzie riesce a farsi amare ed ha tanti amici.

Un giorno Lizzie, quando aveva appunto 16 anni, era su Youtube ad ascoltare musica  trova, sulla destra, nell’elenco, una sua foto come anteprima. Il titolo recitava “La donna più brutta del mondo”. Il video in questione era solo incentrato sulla sua foto ed i commenti erano terribili. Addirittura “sparati”.

Perché sì, dentro di noi siamo tutti convinti che una donna non bella non possa far altro che mettere fine alla sua vita.

E prima di dire “No” vi invito a rifletterci.

Insomma Lizzie passa un momento di smarrimento e poi si pone una domanda:

“Queste parole, mi definiscono?”

Si risponde che no, non la definiscono. La bellezza per lei non è mai stata una cosa da prendere in considerazione quanto l’affetto dei suoi cari e dei suoi amici. Lei non sarà la donna più bella, ma non le è mai importato.

Lizzie si è nel frattempo laureata, ha scritto tre libri ed è una “Motivational speaker”, ovvero parla davanti a migliaia di persone, per lavoro, cercando di tirar fuori le risposte alla grande domanda:

COSA TI DEFINISCE?

Sei brutta? Hai gli occhi storti i denti spaccati? Ma risolte le questioni di salute (sempre bisogna cercare di star bene, eh?) tutto questo ti definisce?

Sei la persona con gli occhi storti o sei la persona che scrive e parla emozionando la gente?

Hai perso la verginità con la persona sbagliata ed ora credi di dover restare con quell’uomo che ti riempie di botte perché oramai non sei più “pura”?

Quella membrana ti definisce?

La concezione che gli altri hanno di ciò che dovresti fare del tuo corpo ti definisce?

Sei nata in un corpo di uomo ma ti senti donna, ti piace truccarti e in fondo sei anche bellina vestita da donna? O sei orrenda e sembri Divine ma ti diverte decorarti? Ti piace il rosa, i glitter. Gli accessori e le frivolezze.

Il tuo sesso di nascita ti definisce?

O ti definisce la tua capacità di provare empatia, di ascoltare, l’abilità nel creare le cose, o nello spiegarle.

La tua dialettica o il tuo gusto artistico, la tua voce, il tuo calore, il tuo cuore?

Gli ostacoli che hai superato, le persone che hai amato, le lacrime che hai versato, le malattie che hai superato e quelle che ancora ti fanno penare. Il lavoro in cui eccelli e i libri che hai letto. O scritto.

Sei la persona dall’altro capo del telefono che qualcuno cerca quando piange?

Sei la spalla? Sei l’essere fragile che vi si appoggia?

Sei di disturbo agli altri, o ti cercano?

Hai fatto un viaggio interiore, e se non lo hai fatto sei ancora in tempo.

E dopo questo viaggio domandati cosa ti definisce.

Scoprirai che le definizioni delle persone che badano solo a come è fatto il tuo corpo e come lo usi non contano nulla.

Tu sei una persona, con il tuo viaggio.

“Uomo” e “donna” non contano nulla.

“Il linguaggio ha un genere”. Laboratorio.

Il primo incontro di questo laboratorio organizzato dall’Associazione “Io donna” verteva sul linguaggio ed era tenuto dalla professoressa Rosita Belinda Maglie, Ricercatrice in Lingua Inglese e Traduzione, del Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia e Comunicazione, Università “Aldo Moro” di Bari.

Sono arrivata tardi perché non mi ero segnata l’indirizzo, quindi non so cosa si sia fatto nella prima mezz’ora.

Al momento del mio arrivo la docente-relatrice (d’ora in poi solo “relatrice”) ha fatto notare come, salutando una coppia, le persone tendano a nominare l’uomo con il proprio titolo professionale, mentre la consorte, nonostante i meriti accademici, rimane “signora”. Questo è uno dei modi che la lingua ha di discriminare i successi professionali delle donne, ignorandoli. Se indichi un uomo con il suo titolo, perché non fare lo stesso con la “gentile signora”?

Sarebbe quindi rispettoso chiamare o “signori” ambedue, o informarsi sul titolo di ambedue e usarli quando ci si rivolge a loro. Allo stesso modo, con ognuno di loro.

Abbiamo poi letto i testi di due canzoni che parlano di sessismo: “Woman is the nigger of the world” (“La donna è il negro del mondo”), di John Lennon, che si riferisce al concetto di subalterno; e “Un vero uomo dovrebbe lavare i piatti” di Caparezza, che ribalta la costruzione virilista vittoriana lanciando una provocazione che risulta forte per l’utilizzo della retorica (VERO, che vuol dire? Sei un essere umano, quindi sei vero).

A questo punto abbiamo letto una serie  di definizioni di “linguaggio”, atte a comprenderne l’importanza (sì, c’era anche lì qualcuno che ancora diceva “ma che sarà mai? Sono solo parole!”).

Il  linguaggio mette ordine alle cose, fa parte del nostro modo di costruire i pensieri (non c’è un pensiero senza il linguaggio, disse Freud e ampliarono Lacan e Marcuse), colleghiamo un sentimento ad ogni parola e “significhiamo”, quindi non possiamo pensare che vada bene lo stesso nominare la realtà in un modo o in un altro.

Tornando al laboratorio abbiamo letto alcune definizioni di studiosi, come Camus e altri, riguardanti i linguaggio, poi delineato il significato di stereotipo e pregiudizio, e quanto questi pesino sulla costruzione della realtà, e ci limitino nella reale profonda conoscenza del prossimo.

Dopodiché ci siamo addentrati nelle iniziative promosse da diversi enti per ovviare al problema della mancanza di versione femminile nelle denominazioni di alcune professioni. Esiste un tavolo tecnico al’interno dell’Accademia della crusca per questo tipo di elaborazioni, ma probabilmente il linguaggio si evolverà autonomamente come sempre e possiamo solo stilare delle linee guida per linguaggi istituzionali.

A questo punto, per comprendere COME divulgare e rendere attivi i nuovi linguaggi e quindi i nuovi pensieri,  l’attenzione si è spostata sulla scuola, sulla riforma di quest’anno e in particolare sul Comma 16 (Legge 193/2013). La parte riguardante l’educazione di genere.

Quindi la relatrice ha mostrato la campagna denigratoria in merito a questo tentativo di avanzamento della società: la fantomatica teoria GENDER e quindi i movimenti “contro” ad essa associati.

Ho dovuto vedere un video che avevo evitato per mesi, quello dell’Ass.ne Provita con la mamma che torna dai colloqui e dice che a scuola hanno insegnato al candido pargolo che può decidere se essere maschio o femmina e assurdità simili. Per fortuna noi gente di Gender la buttiamo sul ridere e infatti abbiamo poi visto un contenuto Fanpage fortemente ironico in cui si vede la manifestazione delle Famiglie Arcobaleno con didascalie che interpretavano malignamente. Alla maniera del bigotto.

Il discorso sull’antiGggender si è poi spostato sulle favole censurate dal sindaco di Venezia (seguito a ruota da altri) che hanno scatenato l’isteria pubblica: “Una bambola per Alberto”, “Piccolo uovo” e la mia preferita: la favola della principessa e il drago, in lingua originale qualcosa tipo “la principessa dal vestito di carta”

Quando esplose la polemica riguardo questa favola non riuscii a procurarmela, lessi esclusivamente la descrizione “favola che racconta di una principessa che ribalta i ruoli di genere, salvando il principe” e non capivo. La storia è piena di donne con la sindrome della crocerossina, per quale motivo i bigotti “anti-gender” dovrebbero censurare anche questa? Ebbene.

La principessa si reca a salvare il principe vestita solo di un sacchetto di carta, che è l’unica cosa rimasta dalla furia delle fiamme del drago. Quando il principe viene salvato invece di cagare un grazie le fa la critica su come sia vestita e coi capelli arruffati. Lei volta i tacchi e se ne va.

E quindi di questo avete paura?

Che vostra figlia possa abbandonare al suo destino uno stronzo ingrato superficiale?

Insomma in due ore si sono toccati disparati punti e più che essere un momento per esaurire un discorso il laboratorio è stato una fucina di spunti di approfondimento. In particolare la mia stima va all’Associazione Io donna per un motivo a me molto caro: non hanno approfittato dei fondi europei per la giornata del 25 Novembre per organizzare una iniziativa retorica con tanto di “Rosa”, “Scarpette rosse”, “Se ti picchia non ti ama”(anche se vengono utilizzate immagini simili in alcune campagne, retaggio di concetti superati di vittimismo sempre e comunque. Nessuno è perfetto); hanno fatto una cosa a quanto pare rivoluzionaria:

SI SONO AFFIDATI AL DIPARTIMENTO DEGLI STUDI DI GENERE. Di Bari e Lecce.

Pazzesco, eh?

Snoppen e Snippan. Bambini: ecco Pene e Vulva. Snippedi snoop.

snopp

A Gennaio di quest’anno (2015), in una trasmissione svedese (Bacillakuten) che si occupa di spiegare ai bambini questioni riguardanti la salute, il corpo, il benessere, è apparso il video di Snoppen e Snippan, ovvero Pene e Vulva (anche se molti siti, malconoscendo i genitali femminili, ahimè, hanno tradotto con “Vagina”. Ma, fidatevi, ho controllato, è VULVA).

Il testo recita:

Poppi-dop-pop snippedi snopp

Ecco che arriva pene galoppando

Quando sei senza pantaloni

Vai in giro nudo agitando pene e sedere.

Snippe dipp dipp snippedi du

Vulva è alla moda, ci puoi credere

E anche da vecchietta Vulva se ne sta lì tutta elegante.

Così diversi ma quasi la stessa cosa

Fai la pipi con pene o con vulva se sei femmina.

Pene e vulva, che bella squadra

Vulva e pene cantano il nostro ritornello

Pene e vulva stanno sul nostro corpo

Snippe dipp dipp snippedi snopp

Poppi dopp op snippedi snopp

Stanno appesi ad un corpicino

Snippe dipp dipp snippedi du

Vulva è cool, Baby I love you.

(chiaramente andrebbe tradotto utilizzando nomignoli. Che ne so, patata e pisellino. Abbiamo fatto l’insalata russa!)

I colori sono accesi, le forme tondeggianti e i due organi riproduttivi sono corredati da teneri occhioni kawaii e guanciotte rosa. Un argomento che spaventa molti genitori (perché io sono fatta così e Luigino è fatto diversamente?) spiegato nella maniera più elementare, semplice e allegra possibile. Senza ombra di “Gender”, visto che è chiarissimamente eterosessista la canzone. Snoppen si innamora di Snippan. E basta.

Eppure c’è ovviamente chi ha contestato la cosa. Va beh.

Alle polemiche l’autrice, Caroline Ginner, risponde: << Potete guardare il filmato in segreto e continuare a nascondere ai vostri figli finché non avranno 18 anni il fatto che essi hanno un pene o una vagina (così traduce il giornalista de “Il corriere.it”, come quasi tutti gli altri. Povero universo femminile!). Probabilmente non noteranno nulla nelle loro mutande prima di allora e quando se ne accorgeranno, ne saranno talmente disgustati che si copriranno colpiti dalla vergogna e dal senso di colpa>>. Già.

Resta il fatto che se ne sia parlato moltissimo negli altri paesi, tanto da necessitare una versione inglese. Ma questa invasione che molti articoli da me trovati prevedevano in Italia non si è vista. E nemmeno dalle testate “Anti-gender” ! Pazzesco, quanta poca attenzione. Nessuna crociata contro Snoppen e Snippan, ma solo io che ho appena scoperto che “Elegante” si dice nella stessa maniera anche in Inglese e Svedese!

Forse sentendo “Svedese” e “Snoppen” più che a un pene avranno pensato a un comodino.

Il libretto e i genitori 1 e 2. Ovvero: gli stupidi esistono.

immagine gender

(è scientificamente provato da molti studiosi a caso che so io e da questa immagine che la dicitura sul libretto può rendere infelici i bambini. Dite NO alle diciture sul libretto che influenzano le nostre vite. E soprattutto: CHI CAZZO MAI DICE “IN CALCE”? CHE VUOL DIRE? LEVATELO MALEDETTI OMOSESSUALISTI)

(I’m jokin’)

Impazza da un paio di giorni (oggi 30 Settembre 2015) un post della Assessore (Assessora? Controllo) all’ ISTRUZIONE e Pari opportunità della Regione Veneto, tale Elena Donazzan (qui biografia esilarante) in cui si denuncia lo scandalo del “furore ideologico gender” che ha portato a stampare sui libretti la seguente dicitura:

“Firma di un genitore (o di chi ne fa le veci)”

Firma 1

Firma 2

SCANDALO!!!

assessore

Ora, leggo dal Curriculum amministrativo e politico che la signora ha militato nel Fronte della Gioventù da adolescente, e di seguito in Alleanza Nazionale. E il mio candore mentale mi fa credere che una persona convinta delle proprie idee conosca bene l’ideologia che professa, e i personaggi storici a cui fa riferimento, conoscendo bene ogni loro azione.

Tra cui il fatto che la dicitura sia stata apposta per la prima volta nel 1938 a cura del Ministro dell’ Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, governo Mussolini.

Inutile ribadire che da due giorni le stanno facendo il popò a strisce non solo “Lgbt friendly”, ma proprio chiunque abbia anche solo un briciolo di cervello e memoria della propria infanzia. Ricordiamo tutti quella dicitura, signora.

Tra l’altro quel foglio non è il libretto, bensì la matrice che rimane in segreteria, dove appunto è definita la PRIMA FIRMA, ovvero quella che apparirà più spesso nel libretto, e LA SECONDA. Quella di riserva. Come quando si registra la firma in banca, al ritiro del libretto degli assegni. In questo caso parliamo di un minore, quindi non si può registrare una sola firma, per sicurezza se ne registra una principale ed una che apparirà quando il primo “Genitore o chi ne fa le veci” è impossibilitato.

Questo per molteplici motivi che non sono necessariamente “Gender friendly”, signora.

Ci sono bambini senza uno o ambedue i genitori, ci sono bambini tolti ai genitori che pure vanno a scuola ma hanno un tutore, ci sono bambini i cui genitori lavorano fuori e che crescono coi nonni o altri parenti, quindi la firma la mettono i nonni perché non è che per le vostre fissazioni sulla “famiglia tradizionale” (ci sto scrivendo un pezzo in merito) dovremmo spedire il libretto in culonia dove lavora il padre perché maisia, il pater familias potrebbe subire una frustrazione dovuta alla perdita di sovranità!

Scopro tra l’altro che la signora non è nemmeno laureata. Non che sia la laurea a darti queste competenze elementari, eh? però diamine,  in Veneto non c’era una persona più qualificata da posizionare in quell’ufficio?

Per carità, niente commenti sessisti che se ne sono visti anche troppi sotto quel post, ma gente come lei, signora, offre davvero un pessimo servizio alla causa delle Pari opportunità. A meno che non si tratti di pari opportunità per deficienti e colti di guadagnare lo stesso stipendio.

E allora mi professo TOTALMENTE CONTRARIA ALLE PARI OPPORTUNITA’